Progetto Demos: "Dalla necessità alla Virtù" - Racconto2
Giulianova (Provincia di Teramo, Italia) Il soldato biondissimo
di Marco Verdecchia
Al bar Agrò dove lavoro, proprio a fianco del bancone si apre una porta da saloon da cui si accede ad un regno del tutto peculiare riservato ai soli maschi. Dopo un piccolo e buio corridoio che lentamente si slarga, si arriva ad un locale ampio dove domina un biliardo sontuoso attorno al quale i giovani del quartiere passano quasi tutte le serate, maneggiando boccette e stecche fino a notte fonda. Quasi tutti loro hanno lasciato presto la scuola, adesso sono operai, per lo più manovali, oppure tentano di diventare piccoli commercianti iniziando con una piccola bancarella di frutta. Prima ancora di imparare un mestiere e quando erano ancora adolescenti, sono diventati professionisti di quel gioco da adulti che li fa sentire grandi; prima di ogni colpo indugiano ossessivamente a levigare la punta della stecca col gessetto blu e quindi appoggiano per un attimo la sigaretta sempre accesa sul posacenere e colpiscono le bocce bianchissime a disegnare consolidate geometrie sul tiratissimo panno verde. Il lampadario da tanti watt illumina bene solo il rettangolo del biliardo, mentre la luce diffusa esalta l'impressionante calotta di fumo che, come in una immagine dantesca, perennemente incombe dentro la stanza che a malapena respira da una piccola finestra scavata sotto il soffitto.
Intorno ai giocatori intenti a mantenere una adeguata concentrazione, piccoli personaggi ostentano una finta disperata allegria e conquistano a turno la scena narrando di qualche malefatta o qualche buffo aneddoto. Una sera c'è Giggino che racconta rabbioso di un furto che hanno perpetrato nel suo laboratorio di falegnameria; dopo adeguate maledizioni ed invettive verso i giovani che rubano anziché lavorare, arriva ad invocare pene severissime fino all'ergastolo che dovrebbe scattare, a suo parere, già al terzo delitto, non importa quanto piccolo. Ad assentire a quella proposta di modifica del codice penale c'è anche qualche nostalgico di quando c'era lui che si lascia andare ad un sarcastico auspicio: “I arp'ccess li forn' crematorje” (“Fosse per me, riaccenderei i forni crematori”); senza che ci sia tempo di fargli seriosamente notare che si tratta di una battuta di pessimo gusto, l'ironia del popolo è pronta a replicare con impressionante prontezza e veemenza: “P'kko? K' tia coce li p'llasstre?” (“Come mai? Hai forse urgenza di arrostire dei polli?”). Segue risata collettiva e rumorosa da standing ovation a cui partecipano persino i seriosi gareggianti del biliardo, i quali non esitano ad appoggiare stecca e gessetto per poter applaudire.
Quando torno al bancone con il vassoio vuoto, arriva Gianluigi ed ordina, con la consueta cortesia svizzera, il suo latte macchiato a cui abbina uno degli inimitabili cornetti alla marmellata che prepara Roberta, la bravissima pasticciera sorella del proprietario del bar.
Mentre appoggio il bicchiere caldo sul piattino, ripeto con una perifrasi la battuta dei polli da arrostire, ma Gianluigi sorride appena, lo fa per cortesia nei miei confronti, capisco bene che la cosa non lo ha fatto ridere e quando gliene chiedo esplicitamente la ragione cerca parole semplici e gentili per dirmi che non si dovrebbe scherzare su quelle cose. “Cazzo, ma questo non era di destra? Come fa adesso ad avere pietà per le vittime dei suoi stessi amici?” - Lo penso ma, ovviamente, taccio.
Come se avesse letto il quesito dai miei occhi ridiventati rapidamente seri, Gianluigi prende allora a raccontarmi di una certa signora Helga Klein che gli aveva insegnato ad amare la lingua tedesca ed aveva un numero di quattro cifre tatuato sul braccio. Io lo ascolto in silenzio, e lo interrompo solo raramente per domandare quale aspetto avesse e con quale lavoro si procurasse da vivere.
Il racconto mi lascia una intensa impressione. Quando torno a casa dopo mezzanotte, come ogni sera consumo il frugale pasto freddo che mia madre mi ha lasciato pronto sul tavolo e mi torna in mente che mia mamma pronunciava ancora con orrore le poche sillabe di tedesco che aveva imparato durante la guerra; per dire che qualcosa non si doveva fare, i soldati nazisti ci mettevano un Nicht! e tutti avevano imparato che quel suono intimava un divieto perentorio; nella fonetica di cui i miei genitori disponevano, il Nicht! era diventato Nix! e quando mia madre lo ripeteva faceva la faccia impaurita di chi si sente minacciata, come se il ricordo di quel suono le facesse ancora paura e molto più delle divise; in effetti, lei testimoniava sempre che quei soldati non avevano mai fatto del male e o semplicemente mancato di rispetto a nessuno di loro. Eppure questa signora Klein, che doveva esser stata dalle parti di Auschwitz-Birkenau o in qualche analogo villaggio-vacanze, il tedesco lo amava ed insegnava agli altri ad amarlo.
Quando le truppe tedesche erano di stanza dalle nostre parti, tra il 1943 ed il 1944, si erano accampati nelle vicinanze dei due ponti ferroviari sopra i due fiumi che delimitano la nostra cittadina a nord ed a sud. Su quei due ponti si accaniva l'artiglieria aerea delle truppe alleate che tentava, in tal modo, di interrompere quella linea ferroviaria attraverso la quale si assicuravano rifornimenti alle truppe naziste che combattevano sulla famosa linea Gustav, posta circa 60 chilometri più a sud. E quando le truppe tedesche erano arrivate vicino alla foce del torrente Salinello, avevano requisito una delle pochissime case che si trovavano nelle vicinanze. In quella casa viveva una abbondante famiglia di poveri mezzadri: i miei nonni, i loro figli, le mogli ed i figli di questi ultimi.
Quando due soldati tedeschi avevano fatto per la prima volta irruzione in quella casa, c'erano stati momenti di terrore; con le baionette, i due militari avevano squarciato i poveri pagliericci riempiti con le foglie di granoturco e solo quando la facile perquisizione di quelle poche suppellettili li aveva convinti che non ci fossero armi o partigiani o chissà-cosa-altro-cercavano, si erano leggermente rabboniti nell'atteggiamento. Quando sembrava che stessero per andar via, quello che sembrava il capo aveva aperto la porta con un colpo violento dato col calcio del fucile. A quel punto, mia cugina Silvana, che aveva cinque anni, era scoppiata in un pianto disperato che invano sua mamma aveva tentato di attutire mettendogli la mando davanti alla bocca; allora il soldato tedesco si era fermato ed aveva tolto l'elmetto liberando una capigliatura folta e biondissima, aveva i capelli che sembravano quasi bianchi. Il militare si era avvicinato alla bambina nel panico generale e aveva fatto quello che non si aspettava nessuno: le aveva fatto una carezza delicata sulla testina che tremava. Il pianto di Silvana aveva compiuto il primo pezzo di miracolo; quel singhiozzo era verosimilmente assai simile a quello di un'altra bambina che il ragazzo tedesco dalla testa biondissima aveva lasciato in Germania. E sotto altre rovine quell'altra bambina piangeva nello stesso modo, come la bambina italiana.
Il resto del miracolo lo aveva compiuto il profumo della pasta e ceci che era appena stata apparecchiata sul tavolo prima di quella irruzione; io l'ho assaggiata più volte e posso testimoniare che la pasta e ceci di mia zia Leonilde sarebbe stata da annoverare tra i patrimoni immateriali dell'umanità, se solo all'Unesco avessero fatto in tempo a conoscerla. I due ragazzi tedeschi si erano seduti a tavola ed avevano mangiato di buon gusto e, credo, senza rimpiangere i würstel della loro mensa.
Qualche settimana più tardi, quando tutta la famiglia era sfollata sulle sponde più interne del torrente portando con sé anche il prezioso bestiame, nel silenzio della notte buia, la piccola Silvana aveva chiesto come mai i soldati tedeschi portano sempre quello strano cappello di ferro. E Amerigo, il cugino già adolescente, aveva trovato il modo di far sorridere lei ed anche tutti gli altri.
“Si vergognano perché hanno i capelli bianchi anche da giovani!”
pubblicato il 22/03/2020
Marco Verdecchia,
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